Il rifiuto della madre da parte di un figlio maschio adolescente non può essere considerato alla stessa stregua del rifiuto di un bambino. Mentre, infatti, il bambino è dipendente psicologicamente dal genitore, l’adolescente inizia un processo di affrancamento da esso. Egli è ancora dipendente dalla madre, ma certamente ha bisogno e ricerca aree di autonomia di pensiero e d’azione sempre maggiori.
In adolescenza avviene una seconda nascita psicologica, si attiva un secondo processo di separazione-individuazione, nel quale il ruolo del padre è fondamentale. Può nascere nei figli di genitori separati, proprio nella fase adolescenziale, il bisogno di conoscere/avvicinare il padre ed essi, a volte, avanzano la richiesta di poter andare a vivere con lui.
La madre può vivere con grande sofferenza e risentimento questa richiesta del figlio quando la interpreta come un rifiuto, una mancanza di riconoscenza: “Con tutto quello che ho fatto per lui!”.
Sul ruolo del padre in adolescenza, dice Charmet: “Secondo me rimane valida l’ipotesi originaria (qui s’intende nonostante la trasformazione del padre dalla famiglia etica alla famiglia affettiva e della relazione, da Edipo a Narciso) che la funzione paterna abbia, fra i vari mandati, anche quello di favorire l’aggiustamento della relazione fra madre e figlio durante l’adolescenza, contenendo la madre che partorisce il figlio per la seconda volta, questa, per fortuna, solo simbolicamente, ma non con meno ansie concernenti l’esito finale del processo di soggettivizzazione. Il padre, perciò, svolgerebbe la propria funzione in adolescenza contenendo la madre e sospingendo il figlio verso la nascita sociale e l’assunzione di responsabilità (…). È chiaro che l’attivazione paterna comporta l’attivazione di un conflitto, a volte doloroso, innescato dal lutto per la perdita della reciproca appartenenza tra madre e figlio (…). È proprio durante la seconda nascita adolescenziale che il padre rischia perciò di essere paranoicizzato e accusato di avere troppa fretta di cacciare dal paradiso domestico all’inferno sociale semi-lavorati educativi ancora immaturi e non pronti ad affrontare la crudeltà della vita sociale e le intemperie della vita amorosa extrafamiliare…”. (G. P. Charmet, “Da Edipo a Narciso” in “Padri, madri e figli adolescenti”, a cura di K. Provantini e E. Riva, ed. Minotauro, 2012)
Charmet, ovviamente, qui pensa alla famiglia unita e al conflitto che può sorgere tra i genitori di un figlio adolescente che avanza richieste di autonomia. In questo caso, tuttavia, il conflitto rimane tra le mura domestiche, mentre, quando i genitori sono separati l’adolescente ha la possibilità di richiedere di cambiare il proprio collocamento.
Sebbene, in alcuni casi, le modalità con cui avviene la separazione madre-figlio possano essere drammatiche, per via del confitto presente tra i genitori separati, la richiesta del figlio adolescente di vivere col padre può essere ascritta a questo movimento naturale che ricerca una maggiore vicinanza al padre per potersi allontanare dalla madre ed iniziare il suo percorso di costruzione di un’identità autonoma, il processo di soggettivizzazione. Da questo punto di vista, il comportamento dell’adolescente può essere compreso e visto come facente parte di un naturale processo di sganciamento dalla madre; così come sotto una diversa luce potrebbero essere viste le reazioni dei genitori, se non fosse che a volte i loro tratti di personalità molto rigidi ed il conflitto pregresso e perdurante rendono tutto più drammatico e complesso.
Un altro processo naturale dell’adolescente può scontrarsi con la realtà della separazione dei genitori, soprattutto quando si tratta di separazioni contraddistinte da un conflitto perpetuo, rendendo il lavoro genitoriale ancora più arduo: il processo di ricerca del vero sé infantile di cui parla Charmet:
“Per i genitori degli adolescenti una delle difficoltà educative riguarda la funzione che debbono svolgere nei confronti della ricerca che i ragazzi sentono di dover fare della verità. Cercano la verità in ogni direzione: sia nel passato sia nel futuro. Vogliono sapere cosa sia veramente successo durante la loro infanzia e cosa succederà domani, non appena potranno decidere del loro destino. È naturale che tutto ciò accade perché si tratta di definire chi siano veramente, cosa desiderino nella profondità della loro mente: per poterlo fare bisogna che conoscano la loro vera storia e possano decidere del modo di realizzare la loro più profonda identità. (…) Vogliono capire perché sono state prese certe decisioni, perché non è stato detto tutto, perché si è fatta loro credere una versione di comodo, vogliono capire da dove provengono certi loro pensieri, sapere l’origine dei loro sentimenti. (…) Vogliono capire l’origine del loro «vero sé» (…) infantile…”.
Continua Charmet: “L’adolescente rivendica il diritto a essere sé stesso (…) L’irruenza con cui certi adolescenti sostengono le ragioni del bambino che sono stati spesso sgomenta i genitori, che non sono affatto d’accordo nel ritenere di averlo zittito e di aver esercitato una dittatura capace di imporre la censura sui suoi pensieri”. (“Adolescienza”, G. P. Charmet e L. Cirillo, Ed. San Paolo, 2010, pag. 11).
Da qui la difficoltà di alcune madri di riconoscere il “loro” bambino nel ragazzo di oggi. Non lo riconoscono più, ma anche non riconoscono l’impatto che su di lui ha avuto la modalità educativa usata negli anni dell’infanzia.
Anche in situazioni meno dolorose, il genitore che arriva in consultazione riporta il vissuto di “non riconoscimento” del figlio, “non lo riconosco più, cosa gli sta accadendo?”; pensano a volte all’influenza di “cattive compagnie”, ma di solito il timore è di avere sbagliato tutto e il genitore o i genitori sono assaliti dal senso di colpa per non aver saputo educare il figlio o non avergli trasmesso a sufficienza il loro amore.
La madre separata può essere ancora molto arrabbiata col padre per l’esito del loro legame, può non essersi resa conto di quanto ha coinvolto/non protetto il figlio dal conflitto e dal risentimento che ha “covato” o espresso apertamente negli anni contro il padre.
Nell’infanzia, di fronte al conflitto dei genitori, il bambino può assumere il ruolo di mediatore o di paciere; quando la comunicazione tra i genitori è assente o gravemente compromessa e il figlio diventa l’unico veicolo di informazioni tra i due, il fraintendimento è sempre dietro l’angolo, in agguato. Il bambino è conformista; si adatta/adegua alle aspettative ed ai desideri/bisogni del genitore con cui si trova in quel momento; per questo motivo l’immagine che a volte i genitori separati riportano del figlio è così diversa che sembrano parlare di due bambini diversi e il risultato è che l’uno accusa l’altro di mentire o di non conoscere a fondo il figlio come lo conosce lui/lei.
In preadolescenza inizia un lavoro mentale, in gran parte silente, che si svolge all’insaputa dei genitori perché il figlio adolescente non vuole rischiare di lasciarsi influenzare da loro che si ritrovano così, improvvisamente, di fronte ad un figlio che non conoscono e non ne capiscono il motivo.
Questo processo interno rimanda ad un altro bisogno dell’adolescente che è quello di creare una sfera privata, nella quale proliferano i segreti, ai quali egli stesso, a volte, non sa dare un motivo, perché sono segreti privi di senso, cioè non volti a celare comportamenti particolarmente trasgressivi. Si tratta di un’area privata della quale l’adolescente ha assoluto bisogno per sentire che si sta affrancando dai suoi genitori e che questi ultimi devono assolutamente rispettare.
Dice al riguardo Charmet: “il figlio adolescente ha ora un bisogno di sperimentazione, esplorazione, avventura, e a volte non può chiedere il permesso di soddisfare i nuovi bisogni innescati dalla trasformazione del corpo e della mente per la natura intrinseca di ciò che deve sperimentare, che è appunto vissuta come evento privatissimo, segreto, forse trasgressivo nei confronti delle aspettative dei genitori (…) Perciò deve avere dei segreti perché non vuole essere influenzato (…)”.
In preadolescenza e adolescenza, il processo di ricerca interiore si accompagna alla maturazione cognitiva della capacità di pensare. Il ragazzo accede al pensiero astratto, non più ancorato alla conoscenza concreta degli oggetti, è in grado di separare fantasia e realtà nei pensieri e nei ragionamenti; il preadolescente, inoltre, riesce a pensare ad un futuro via via sempre meno immediato e, “astraendo dal «qui e ora», a costruire l’universo delle cose possibili dentro lo spazio che si apre quando realtà e fantasia, per effetto della maturazione, degli apprendimenti e delle spinte evolutive, si differenziano più nettamente.” (D. Cuccolo, op. cit. pag. 412)
Al processo di ricostruzione della propria storia che avviene in adolescenza possono associarsi emozioni dolorose: “…è chiaro il desiderio di prendere le distanze dalle emozioni negative connesse a quelle rappresentazioni di sé che generano pensieri senza speranza e che lasciano presagire solo sofferenza e solitudine.”
Quando emozioni negative si associano alle rappresentazioni di sé bambino formatesi nell’interazione della “madre arrabbiata col padre”, l’adolescente, nel tentativo di prendere le distanze da esse, può chiedere di vivere col padre.
In questo frangente, per il futuro del figlio e della relazione genitori-figlio è determinante la lettura e la reazione dei genitori: il rifiuto della madre renderà più problematico per il minore “tornare indietro” quando si sentirà di nuovo pronto a considerare le ragioni della genitrice, mentre una madre che sia in grado di esprimere al figlio il proprio dolore per il distacco, ma al contempo riconosca e accetti il suo prendere le distanze da lei come un bisogno di crescita, non rende necessario un taglio netto del legame che potrà essere così recuperato al raggiungimento della prima età adulta.
Anche l’atteggiamento del padre è fondamentale: diverso sarà un padre che accolga la richiesta del figlio di vivere con lui come una vittoria trionfale su una madre inadeguata, dal padre che al contrario saprà svolgere il proprio ruolo senza recidere il legame con la madre, che deve poter rimanere, almeno mentalmente, presente nella sua relazione col figlio.